Tradizione vuole che in quei terreni, nel ritmo lento della vita legato alla natura, fosse presente, già nella metà del 1400 una cappellina, meta di pellegrinaggi popolari, che custodiva l’immagine affrescata di Santa Maria con Gesù morto sulle ginocchia, icona della partecipazione di Madre alla Passione del figlio.
Pare probabile che si tratti di quella ‘cappellam parvam’ a cui fa riferimento lo stesso Birago nell’atto notarile del 1485 descrivendo le sue proprietà oggetto del legato.
La presenza di questo affresco, viene documentata in realtà per la prima volta, come collocata in un muro perimetrale del già edificato convento della Passione, solo nel 1590, in seguito ad una testimonianza di miracolo.
Probabilmente fu questo il momento in cui i Canonici decisero di strapparlo per trasferito all’interno della chiesa – nella V cappella di dx, dove ancora si trova – , nonostante le reazioni e gli impedimenti della Curia. Fu infatti molto secco il provvedimento emanato che, non riconoscendo l’evento, ordinò addirittura di non renderlo più accessibile al pubblico.
Riportiamo qui di seguito il racconto del curioso episodio, interessante perché impregnato di quell’umore popolare che così facilmente impressiona la memoria collettiva.
La penna è quella di Carlo Elli, il quale, nel 1906, si preoccupa di riportarlo nella prima opera monografica dedicata a Santa Maria della Passione:
“Riferisco qui a proposito un fatto antico di cui è memoria in una vecchia carta dell’Archivio di Stato (cartella 309).
La mattina del giorno 25 agosto 1590, una fanciullina passando dietro al muro del giardino dei Canonici regolari della passione, arrivata là, dove era dipinta una immagine del Salvatore in braccio alla Madre, vide sangue alle piaghe di detta immagine e, toccando il sangue con un dito che di quello rimase intinto, corse a casa e raccontò il fatto ai genitori che erano a letto gravati di febbre. Questi sgridarono la figliola per aver toccato il sangue e, levatisi dal letto, corsero a detta immagine rimanendo all’istante sanati. Presto si sparse la fama del miracolo, e molta gente corse a venerare quell’immagine, di cui non pochi dissero di aver veduto il sangue, altri di averne ricevuta guarigione. Saputasi questa cosa anche dai Padri Lateranensi, questi ne avvisarono tosto il Vicario dell’Arcivescovo: il quale mandò alcuni preti di sua fiducia ad esaminare il fatto: ma costoro non trovarono traccia alcuna di sangue.
Continuando però il popolo ad accorrere, l’abate del monastero domandò alla Curia il permesso di trasportare detta immagine nella chiesa: e senz’altro aspettare, un giorno, senza suono di campane e senza pompa vi venne trasferita in una cappella.
Intanto la Curia proseguiva nelle sue ricerche per il processo canonico della cosa; e finiva per sentenziare essere falso il miracolo, minacciando nientemeno che l’interdetto della chiesa, qualora fra tre giorni di tempo detta immagine non venisse rimossa dalla medesima e collocata in luogo segreto ed impossibile a vedersi dal popolo.
La memoria non dice altro, né accenna se i Canonici abbiano ottemperato o meno alla disposizione della Curia. Ma giova ritenere di si, e che poi in seguito di tempo, cessato il primo entusiasmo del popolo, abbaino ottenuto il permesso di collocarla nella cappella dove si trova al presente”.
A quando risalga l’affresco, che forma ne assumesse la devozione, prima e contestualmente alla costruzione della basilica e del convento, ancora non è stato chiarito da storici e critici.
Certo è che, già nel 1456, esisteva una Confraternita di Santa Maria della Passione “extra Portam Tonsam” che, come sempre accadeva, si occupava dell’organizzazione delle funzioni e della custodia del luogo sacro, destinataria di una donazione da parte di un certo Gian Rodolfo Vismara.
Anche in merito alla collocazione dell’affresco non è possibile rintracciare una coerenza: se fosse stato situato in una piccola chiesa precedente o, forse, affrescato in un muro e protetto da una cappellina, come sembrerebbe nell’atto che descrive il miracolo, non è dato sapere. Di fatto in quest’ultimo si parla del muro perimetrale del convento, evidentemente esterno, e quindi accessibile alle persone, il che risulterebbe coerente con l’ordinanza della curia che intendeva eliminare proprio questa visibilità, probabilmente per il clamore suscitato e il conseguente fenomeno di pellegrinaggio popolare.
Congedandoci ora dalla la memoria leggendaria, si può dire soltanto che il dipinto per certo precede la fondazione del complesso di Santa Maria della Passione e che rappresenta la testimonianza più antica della sua storia. Da punto di vista sociale, si pone, simbolicamente, come forte collegamento a quell’originario piccolo germe di devozione popolare. Vedremo come da questo impulso si svilupperà una originalissima espressione tematica che, nel corso della lunga e impegnativa gestione della fabbrica, intreccerà tutte le arti in una tensione che troverà nell’iconografia della Passione di Cristo, sensibilmente declinato nel vissuto di Maria, una grande forza. Peculiarità che, ancora oggi, dona alla basilica la possibilità di offrire a chi entra un’intensa esperienza interiore, accessibile a tutti, dal cuore del mistero cristiano.
Ma cosa che fa da sfondo alla scelta di questo tema? e quali sono i vari elementi che confluiscono nella dedicazione da parte dell’alto prelato?
La devozione di Daniele Birago alla Madonna della Passione, che trova espressione nella volontà di finanziare in quel sito una costruzione religiosa dedicatale, è chiaramente documentato nel già citato atto notarile redatto nel 1485 con i Canonici Lateranensi, scelti come destinatari del legato.
Un’ulteriore conferma si trova nel testamento, dove nel contesto della donazione di tutti i suoi averi all’ospedale Ca’Granda, oltre alla richiesta di realizzazione del suo monumento funebre, viene predisposto un significativo lascito finalizzato a mantenere accesi i lumi all’altare di Santa Maria della Passione, a quanto pare ancora oggi tramandato, visto il candelabro sempre accesso di fronte al prezioso affresco nella quinta cappella di dx.
Nel rispetto delle esigenze dei Canonici però, Monsignor Birago si lasciò convincere ad affiancare all’icona di Santa Maria della Passione anche la figura di Sant’Agostino a cui l’ordine si ispirava. Grande testimone dell’opera di Sant’Ambrogio e da lui battezzato nel battistero di San Giovanni alle Fonti (387 d.C), indubbiamente sempre riconosciuto come presenza forte a Milano, il Vescovo di Ippona non poteva non trovare corrispondenza anche in questo grande tempio, come dimostrano le diverse opere pittoriche a lui ispirate.
Infine non si può non considerare, nel contesto del profilo dell’alto prelato, la sua preparazione universitaria e le sue letture in un clima, come abbiamo già ricordato, di fermento culturale umanistico in cui i testi stampati erano ormai diffusi. E’ interessante notare a questo proposito come alcuni titoli inclusi fra i libri donati ai Canonici agostiniani suggeriscano una particolare attenzione al tema della Passione: lo Specchio di Croce di Domenico Cavalca e le Meditationes super Passionem Domini Jesu Christi e un Fletus Virginis in filium suum.
Cominciandosi a delineare la figura del personaggio, è ora possibile immaginare anche la sua idea in merito ad un’opera che potesse, da un lato, accogliere la sua sepoltura e, dall’altro, edificare un’espressione eloquente del suo ‘credo’, scegliendo un tema che oltre ad unire il culto mariano alla simbologia cristica – fulcro tematico di grande intensità come la Passione di Cristo intrecciata alla dolorosa partecipazione spirituale di Maria – a quanto pare risultava essere già presente nella piccola ma significativa realtà di cui abbiamo trattato, epicentro di manifestazioni devozionali collegate all’affresco dell’Addolorata situato nei suoi terreni.