Come già era successo alla fine del Cinquecento, il 10 dicembre 1880 la Fabbri-cena e il parroco di San Babila — la collegiata era stata soppressa da Giuseppe 11 nel 1787 —affrontano con decisione il problema di intervenire sull’edificio oramai insalubre e incaricano l’architetto Paolo Cesa Bianchi di studiare un nuovo progetto (15 gennaio 1881). La Fabbrica esprime il proprio desiderio “di coordinare.., il concetto di un generale restauro con una riforma artistica”.
Il clima culturale a Milano era oramai cambiato rispetto all’ondata di modernità dell’inizio del secolo ed era emersa una particolare ‘attenzione per l’architettura romanica, considerata la grande espressione dell’arte lombarda. Inoltre stavano allora nascendo i primi Uffici per la conservazione dei monumenti, che guardavano proprio alle vecchie basiliche romaniche, spesso modificate nelle diverse epoche, per restaurarle e completarle secondo il loro primitivo linguaggio. Sono di questi anni gli interventi in San Marco, in Santa Maria del Carniine, in San Sepolcro.
In tale ambito, insieme filologico ed eclettico, va quindi inserito il progetto del Cesa Bianchi per la nostra chiesa. Subito decide di affiancarsi nell’analisi dell’edificio l’amico Carlo Casati, membro della Commissione conservatrice dei monumenti, e incomincia a studiare l’interno per verificare attraverso sondaggi la consistenza delle parti romaniche sopravvissute sotto la corteccia muraria barocca. Nella ricerca coinvolge numerosi esperti, si potrebbe dire i maggiori personaggi della cultura neoromanica: dall’Arborio Mella al Mongeri, allo Schmidt, al Boito, che ricercava proprio in queste forme le radici per un nuovo stile nazionale.
1117 febbraio 1882 in una relazione alla prefettura e al Boito poteva confermare la possibilità ditale intervento che, realizzato rapidamente, portò, più che a un restauro, alla riscoperta dell’aula romanica.
Fu più difficile operare sulle absidi che, come si è già detto, erano state demolite al tempo di Federico Borromeo e ricostruite più ampie e con le laterali di forma rettangolare, secondo le norme liturgiche del tempo. Nel giugno del 1882 si decide quindi di abbatterle per ricostruirle sul tracciato di quelle romaniche, delle quali si era trovata la base. Per l’alzato però non rimaneva alcuna indicazione o reperto che potesse guidare la costruzione, né il Cesa Bianchi poté avvalersi per il suo progetto del già ricordato disegno del museo di Stoccarda, trovato soltanto nel 1906.
Egli le risolve quindi in modo nuovo. Per le due laterali progetta un semplice paramento murario di mattoni a vista, entro cui si apre una finestrella strombata, concluso in alto da una cornice di archetti ciechi. Un analogo motivo, sormontato da una galleria ad arcatelle, fu adottato per quella centrale, più alta, dove però “a novazione” vengono ideate tre finestre, giustificate dal “bisogno di luce” sempre presente. Certamente la mancanza di un supporto documentale rese più difficile le scelte progettuali; ma nel marzo 1889 erano completate.
Un problema analogo si ripropone per il tiburio che era oramai diventato una tribuna barocca. Ma fortunatamente qui con un sapiente lavoro di ripulitura fin dal 1881 emersero ampie partiture dell’ antico, con tracce di finestre e arcate romaniche; all’esterno riaffiorano parti di “una loggia in tre campi d’arcate su colonnine isolate per ciascun lato”. Così nell’intervento, anche per sopperire all’umidità, il Cesa Bianchi apre quattro finestre, benché sia consapevole della loro maggior ampiezza rispetto alle originali. Poste sugli assi della chiesa, si inseriscono nella soluzione delle pareti esterne in “una loggia a tre archi sopra due colonnine”, motivo che si ripete, cieco, per gli altri quattro lati. Sopra, a completare la muratura, su tutte le otto facce del tiburio corre una doppia cornice ad archetti ciechi, in rapporto modulare, che termina sotto le falde del tetto. La progettazione delle pareti esterne della chiesa, che fu affrontata nella seconda fase dei lavori, studiò, proprio per la difficoltà del tema, soluzioni diverse nel tempo. Nel lato verso corso Monforte si decise subito di eliminare le murature che formavano un corridoio tra la facciata e la cappella del Corpus Domini, dedicata nel frattempo a san Francesco, collegandola poi con l’abside destra; rimaneva il problema della definizione del fianco e dell’aggetto esterno della cappella, non coeva, ma rinascimentale.
Mentre per la decisione riguardante le navate – più bassa la laterale, più alta la maggiore- si scelse di utilizzare una semplice muratura di mattoni a vista, conclusa in alto da una cornice di archetti ciechi e scandita da contrafforti, per la cappella si ritrovano, nei disegni rimastici, due proposte. La prima, che fa parte del progetto conservato nell’Archivio parrocchiale, mostra un diverso trattamento del suo corpo aggettante, che manifesta la sua origine rinascimentale, ma che è risolto in modo sobrio, pur nella differenza dello stile; il secondo progetto, del 15 novembre 1888, non ne muta le forme, ma le arricchisce con la decorazione. Un motivo di gusto classico adorna gli spigoli e la cornice soprastante per svilupparsi poi nel piano superiore. Ma tutta questa ricca decorazione non venne realizzata. Nel 1915 si riapri invece, dopo molti dubbi, la porta laterale di ingresso, che già esisteva nel periodo federiciano e che era stata in seguito tamponata e coperta da un affresco.
Rimaneva da ultimo il problema della nuova facciata, visto che in questo caso non si poteva fare alcun richiamo a quella romanica, demolita all’inizio del Seicento per allungare l’aula; di queste si erano trovate però le fondamenta nella posizione originale. Se infatti per le restanti parti, eliminato il rivestimento seicentesco, “la costruzione antica della chiesa”, come dice il Cesa Bianchi, “si vien a denudare d’ogni aggiunta o da alterazioni”, qui nessuna traccia poteva sostenere l’ipotesi per un intervento di restauro. Si trattava di una vera e propria progettazione ex novo in stile. Ma questo non fermò l’opera. Anzi, tale mancanza non fu considerata grave “giacché la semplicità della costruzione del fianco, la semplicità delle fronti antiche” di chiese con gli stessi caratteri permise di definire la nuova facciata. Forse il profondo studio dell’edificio e di tanti altri esempi del romanico lombardo condusse il progettista, limitandone la fantasia e guidandone “la mano a disegnare razionalmente ossia tutto costruttivamente, quanto sarà stato dell’antica facciata”, come egli stesso scrive al Boito. E fu tale la forza delle scelte che il suo disegno rimase quasi immutato nel secondo progetto, del 1888, e in quello del 1904, quando venne realizzata sotto la guida dell’ingegner Cesare Nava.
Scandita verticalmente in tre parti, corrispondenti alle tre navate interne, presenta in ognuna un portale, sormontato da una finestra. Il motivo è semplice nelle laterali, più ricco e decorato nel corpo centrale. Per la conclusione superiore è riproposta la decorazione ad arcatelle cieche che corre così per l’intero edificio, diventandone l’elemento caratterizzante.
Con la conclusione della fronte nel 1906 si competa quello che allora venne definito “risanamento” e “generale restauro” dell’edificio; in realtà queste opere dettero all’antica costruzione un aspetto che non aveva mai avuto nei secoli, ma che rappresentava, come si e detto, 1’ espressione caratteristica della cultura milanese del tardo Ottocento. In tale veste la chiesa è giunta fino al nostro tempo.